Attualità

Italia: Paese industriale a rischio?

Affittacamere, ristoratori e guide turistiche: questo eravamo noi italiani, agli occhi dei ricchi nordeuropei, prima dell’industrializzazione del Paese, la stessa che oggi viene contrastata senza ricordare che ci ha sottratto a secoli di miseria. Nel nome di un qualcosa che francamente non ha né fondamento economico né futuro. Il caso ILVA scuote il Paese, riportandoci inesorabilmente con i piedi per terra

di Andrea Taschini

Ci sono numerosi libri che raccontano “la percezione visiva dell’Italia e degli italiani” nel periodo d’oro del Grand Tour, diciamo dalla seconda metà del 700 fino alla Grande Guerra, quando tra i ricchi e privilegiati abitanti del Nord Europa era d’obbligo visitare le antichità del Belpaese. Tutti i testi hanno in comune una visione di quei tratti che caratterizzavano il nostro popolo: arretrati, un po’ rozzi, a volte mascalzoni ma certamente e soprattutto affittacamere, ristoratori e guide turistiche. Tra quei resoconti di viaggio, che sono tra l’altro godibilissimi, mi sento di consigliarvi alcuni dei miei preferiti: Camera con vista di Foster, Mattinate fiorentine di Ruskin, Pellegrinaggi d’arte di Berenson e certamente il sublime ed imprescindibile Viaggio in Italia di Goethe.

L’Italia del Grand Tour era poverissima, in balia degli eventi ma soprattutto fortemente deindustrializzata e periferica rispetto ai principali Paesi europei: la gente era giusto in attesa che qualche turista decidesse di avventurarsi (a volte era proprio un’avventura) nelle nostre magnificenze naturali e architettoniche per raccattare qualche soldo che non provenisse dal duro lavoro nei campi. Per darvi un’idea riporto una tabella tratta da un interessante saggio di G. Toniolo scritto per la Banca d’Italia, che fotografa in maniera significativa la situazione del Paese nel 1861. Il nostro Paese ha raggiunto dunque un benessere piuttosto recente rispetto ai Paesi del Nord Europa, in forma peraltro geograficamente non omogenea ma che negli ultimi settant’anni, con una rincorsa straordinaria, ha trasformato i suoi abitanti in ciò che siamo. Prima di allora eravamo un Paese agricolo, senza significative risorse naturali, con situazioni igienico-sanitarie al limite dell’indigenza: le epidemie di colera e malaria avevano una presenza costante indistintamente sia nel Settentrione che nel Meridione. Per fare un breve excursus in materia di rincorsa verso la modernità, diciamo che i primi timidi segnali di industrializzazione li troviamo nel 600 quando si installarono nel Nord del Paese le prime filande di manzoniana memoria (se ricordate Renzo Tramaglino scappando dai moti di Milano si rifugia proprio in quel di Bergamo a lavorare in una filanda). L’acqua abbondante della Pianura Padana era indispensabile per produrre la seta: le rogge che muovevano i mulini che da secoli macinavano grano potevano essere utilizzate per il funzionamento meccanico anche dei telai. Mentre le grandi nazioni europee avevano già da tempo compiuto la propria trasformazione in economie industriali, da noi bisogna aspettare l’unità d’Italia per fare compiere al Paese un salto qualitativo che seppure tra scandali finanziari (quello della Banca Romana coinvolse persino la Corona) e corruzione, nei due ultimi decenni dell’800 vedeva nascere le prime vere e proprie fabbriche di produzione industriale. Da un lato in Lombardia scesero gli imprenditori svizzeri e tedeschi alla ricerca di acqua per muovere moderni macchinari tessili e manodopera a buon mercato, essendo noi al tempo un Paese low cost con eccesso di manodopera mentre dall’altro lato, nel Nord Ovest, si fondavano le prime aziende di lavorazione meccanica (FIAT fu fondata per l’appunto nel 1899): l’humus del know how della nostra modernità fu gettato proprio in quegli anni. Una terza fase di sviluppo si ebbe dal 1925 al 1940 quando lo Stato per la prima volta si fece fautore di grandi investimenti industriali interrotti drammaticamente dalla Seconda Guerra Mondiale, mentre la quarta e forse la più strepitosa fu quella degli anni del boom che rivoluzionarono il volto della nazione, dando dignità di vita a quei milioni di cittadini che dopo secoli di povertà e privazioni riuscivano a raggiungere un certo benessere. Intere generazioni di lavoratori si sono sacrificate per trasformare il Paese da arretrato ad una delle prime dieci potenze industriali mondiali ed è stato per parecchie di esse un percorso duro, faticoso e pieno di sacrifici tali da non essere mai scordati. Tuttavia, già dalla fine degli anni 60 in Italia comincia a svilupparsi un sentimento antindustriale e gli scritti del pluricelebrato Pasolini, per esempio, ne sono una fattiva testimonianza. Lo scrittore-regista friulano si schierava di fatto contro la modernità, rimpiangendo una idealizzata civiltà contadina da cui disperatamente intere generazioni avevano invece tentato di fuggire. L’idealizzazione bucolica dei tempi passati non teneva strumentalmente conto della miseria e del degrado in cui milioni di italiani furono costretti a vivere e nemmeno di quei milioni di cittadini che per sfuggire alla fame si imbarcarono per le Americhe o per i Paesi del Nord Europa senza fare mai più ritorno in patria. Da allora, tra ecological-chic e strampalate teorie economiche sulla decrescita felice i vari governi (ma non solo) che si sono succeduti, per raccattare qualche consenso qua e là hanno distrutto interi comparti manifatturieri strategici ed estremamente profittevoli a partire dalla chimica, vero vanto del Paese fin dal primo dopoguerra.

Allarme deindustrializzazione!

L’ultimo episodio, forse il più clamoroso e ispiratore di questo scritto, è l’incredibile vicenda legata all’ILVA di Taranto di cui i fatti sono ben noti. Non ho mai sentito cotanti discorsi privi di senso, faziosità ed incompetenze intorno ad un singolo tema: credo fondamentalmente che chi non ha mai messo piede in una fabbrica e tantomeno in una fonderia non abbia diritto di parola sull’argomento, anzi, non abbia diritto di partecipare a decisioni che possono mettere a repentaglio il futuro di un sistema produttivo che dà lavoro a migliaia di persone.

L’incompetenza in materia di cultura industriale in Italia ha già fatto talmente tanti danni che non basterebbe un’enciclopedia per raccoglierli. Ho sentito parlare di sicurezza, ma ci sono migliaia di acciaierie nel mondo che la garantiscono. Ho assistito ad accuse di pericolosità per la salute, quando si tratta di un tema di investimenti e di tempi compatibili alla trasformazione degli impianti. Ho letto di proposte per ridurre i volumi di produzione, quando è ben noto che tutte le acciaierie sono competitive per accorpamento di masse critiche importanti e bilanciate, indispensabili per la sostenibilità del business. Non dimentichiamo comunque che se la situazione è questa le responsabilità vengono da lontano, quando la proprietà dell’azienda era dello Stato, che avrebbe dovuto diligentemente investire in sostenibilità, sicurezza e salute. Non voglio qui infine infierire sulle ingenuità della politica nello stipulare accordi per la vendita al Gruppo franco-indiano e nel confrontarsi con aziende ben strutturate e preparate: priva di una reale cultura industriale e di una visione di un Sistema Paese, la politica si fa travolgere inesorabilmente da forze manageriali professionalmente superiori.

Porre l’industria al centro del Paese

Siamo la seconda potenza industriale europea, non abbiamo materie prime e la nostra ricchezza deriva in larga parte dalla nostra capacità di trasformazione. La produzione di acciaio è fondamentale per le nostre imprese ed è nozione basilare che le aziende che vogliano reggere la concorrenza globale, facendo buoni profitti, sono solo quelle che hanno la capacità di verticalizzarsi mantenendo l’unità del valore aggiunto. La stessa logica vale per un Paese che voglia attuare una politica industriale seria e credibile in tutti i settori in cui voglia eccellere. In un’Europa avviata verso una governance sempre più disordinata ed immersi in una globalizzazione senza regole, è ancora più necessario riuscire a trattenere all’interno del nostro sistema produttivo il valore aggiunto più alto possibile. L’industria crea tessuto sociale, aggregazione di idee e know how e tenendo la società ordinata restituisce un senso alla vita di milioni di persone; aggiungo purtroppo che le statistiche vedono migliaia di giovani lasciare l’Italia (circa 250.000 l’anno, in gran parte di formazione universitaria), prova tangibile che ci stiamo avviando verso una quinta fase storica: quella della deindustrializzazione. Se la pianificazione economica dei governi insistesse su un ulteriore rinvigorimento della politica antindustriale, spacciando per esempio bed & breakfast e rider peraltro in crescita esponenziale come una dorata new economy, quando si tratta invece solo di “ripieghi” occupazionali per giunta mal retribuiti ho il timore che l’Italia, negando la propria tradizione industriale, si avvierebbe verso un tuffo nel passato, quello di un Paese di affittacamere, ristoratori e guide turistiche e ciò, perdonatemi, non sarebbe accettabile.